Come è nata la vostra collaborazione
con Avvenimenti?
Da una telefonata dell’Aprile ‘97 che mi fece saltare
sulla sedia. Mi aveva chiamato infatti, quando ormai non ci contavo
più, il più grande operatore di musica “altra”,
come lui stesso amava definire la musica “alternativa”
(termine un po’ obsoleto...), “non commerciale”,
chiamiamola come ci pare... quella che lui soprattutto, ma anche
noi, nel nostro piccolo da sempre coltiviamo con grande fatica e
pochi riconoscimenti.... Ti parlo di Giancarlo Cesaroni, il leggendario
e purtroppo scomparso animatote del Folk Studio romano che, ricevuto
l’incarico da Avvenimenti di curare una collana di folk di
qualità, aveva pensato bene, bontà sua, di contattare
a fianco di “santoni” come John Renbourn e Caterrina
Bueno, il Cantovivo...
Perchè il titolo Collage
?
Perchè abbiamo messo in piedi per l’occasione, dopo
lunghe e spassosissime telefonate con Giancarlo (come tutti i veri
grandi della cultura, Giancarlo era una persona semplice, leggera,
ricca di ironia!) un vero e proprio collage musicale. Un collage
in cui abbiamo ritagliato, scomposto, sovrapposto, avvicinato, i
più svariarti aspetti sia del mondo popolare che del nostro
modo di rappresentarlo. Ne è venuto fuori quindi (almeno
mi auguro sia così) non soltanto una testimonianza della
cultura tradizionale del Piemonte, ma anche una piccola sintesi
del percorso musicale di un gruppo che fa delle radici culturali
della propria terra di appartenenza una, ma non l’unica, ragione
del proprio impegno nella riproposta della musica popolare.
Piemontesi per caso?
Beh, in parte sì. Primo, perchè al di là del
sottoscritto, nel gruppo quasi nessuno dei numerosi musicisti avvicendatisi
in questi primi ventitré anni è di origine completamente
piemontese. Vi hanno transitato perfino latino-americani, un bulgaro,
uno svedese, un inglese .. Secondo, perchè anch’io,
piemontese da oltre quattro generazioni, sento che le mie radici
culturali affondano (ancor di più da quando ho scelto questa
strada) nel terreno comune delle culture popolari. Dico “delle”,
intendendo “la” cultura popolare un luogo della storia,
del tempo, della comunicazione, che accoglie in un unico grande
“collage” le migliaia di linguaggi che la compongono.
Mi sentirei un naufrago sbandato o, se vuoi, una pianticella molto
sfigata, se non avvertissi questa immensa ramificazione delle mie
radici. Detto in parole povere, credo di incontrare più affinità
di linguaggio in un campesiño peruviano, in un portuale scozzese,
in un cantastorie magrebino, in un pescatore irlandese, fors’anche
in uno sciamano maori... piuttosto che nel mio piemontesissimo concittadino
d.o.c. Giovanni Agnelli... che oltretutto è juventino!!!
Vivete dunque la tradizione piemontese
come qualunque altra tradizione? Non c’è un amore speciale
verso di lei?
Fatte le premesse che ho fatto e messici su tutti i cappelli, politici
e culturali, di metodo e di sostanza, aggiungo e chiarisco con piacere
che nel nostro DNA c’è un rispetto e un amore assoluto
verso la matrice di “casa”, verso quella tradizione
piemontese cioè, che in questo disco abbiamo voluto raccontare
e rappresentare. Anche perchè il Piemonte ha una storia ricchissima:
tra le più ricche e movimentate d’Europa (è
falsa la sua attuale raffigurazione di monolitica staticità):
è stato per esempio terra di infiniti stanziamenti e attraversamenti
“etnici”. Nella nostra regione sono rappresentate le
grandi minoranze linguistiche del nostro tempo: quella tedesca dei
Walser, quella franco-provenzale (con ramificazioni da e verso la
Valle D’Aosta e la Francia) e soprattutto quella occitana
(o occitano-provenzale) che rappresenta l’appendice cisalpina
della grande nazione (mai diventata stato per secolari vicende di
sopraffazioni culturali e politiche) che attraversa tutto il Sud
della Francia per un totale di circa dodici milioni di persone.
E’ quella occitana, l’erede della nobile lingua d’oc
trobadorica, quella che ispirò nel medioevo la poesia di
tutta l’Europa e che tentò lo stesso Dante prima che
scegliesse il volgare per la Divina Commedia. Il dialetto piemontese
(da molti oggi sospinto con un po’ di forzatura verso il rango
di lingua), nelle sue molteplici varianti, ha poi generalmente una
struttura insolitamente musicale che ha favorito lo sviluppo e la
conservazione di un corrispondente patrimonio canoro di valore europeo.
Il Piemonte è universalmente riconosciuto come uno dei luoghi
di maggiore e meglio conservata documentazione del canto narrativo,
della cosiddetta ballata epico-lirica di origine medioevale. Vanta
inoltre una grande varietà di canti “rituali”
(quelli del calendario contadino), di canzoni di osteria, o dei
vecchi circoli operai (ancora in parte vivi seppure non sempre ben
“riciclati”), cantate prevalentemente a più voci,
di solito per terze parallele con l’opzione del basso. Equamente
distribuiti sul territorio regionale convivono tuttora i moduli
espressivi arcaici, di campagna e montagna, con quello urbano, nato
sui ritmi del lavoro artigianale, della fabbrica, e per questo più
“accelerato” e pulsante, oltre che quasi sempre attraversato
dalla pungente ironia, quando non dal sarcasmo, del (nostro) mondo
operaio.
Questa impostazione politico-musicale,
questo modo di raccontare il mondo popolare, è una vostra
scelta da sempre?
Da sempre! Siamo nati come canzoniere politico-popolare. Abbiamo
cantato nelle fabbriche occupate, nei cortei, nei circoli storici
della sinistra piemontese, italiana ed anche europea, sempre con
semplicità e spontaneità, ma dandoci anche sempre
parallelamente alcune regole ben precise da rispettare. Per esempio
abbiamo sempre rifiutato oltre all’ingabbiatura piemontesista
quella della “militanza-e-basta”. Perché abbiamo
sempre creduto e puntato sulla qualità della riproposta musicale
(anche quando nella sinistra andava di moda il “basta-quello-che-dici”)
come elemento fondamentale per dare valore e dignità al linguaggio
popolare e alle istanze culturali che da sempre rappresenta. Per
questo, mai togliendoci il “fazzoletto rosso” dal collo,
abbiamo non soltanto sviluppato la nostra ricerca in ogni direzione,
ma l’abbiamo anche portata dovunque: nelle scuole, nei teatri,
nei centri sociali, nei folk-festivals. Mi è successo così,
e concedimi un pizzico di orgoglio nel ricordarlo, di passare a
distanza di 24 ore dall’Auditorium municipale di Stoccolma
al circolo operaio torinese dell’Oltre Po, dal mega-festival
belga con Stivell e Miriam Makeba alla sagra del peperone di Carmagnola,
dallo Stadio Olimpico di Monaco alla Festa dell’Unità
di Cerignola... sempre con lo stesso spirito e la stessa impronta
culturale. Cantovivo è uno dei pochi gruppi in Italia, credo,
che riesca nei suoi concerti ad affratellare le suggestioni delle
antiche ballate medioevali alla rabbia operaia, a rappresentare
fianco a fianco il canto disperato del minatore cileno e la filastrocca
ludica, a scatenare una giga occitana, una courenta franco-provenzale,
una scottish nordica e subito dopo, come in un grande caleidoscopio
popolare far ruotare il canto piemontese, italiano, spagnolo, latino-americano
(o di chissà dove) di lotta contro la repressione, lo sfruttamento,
la prepotenza imperialista.
I vostri dischi riflettono quello
che mi hai detto finora?
Sostanzialmente direi di sì, anche se, a differenza dei concerti,
ogni nostra produzione è stata tematica. Il nostro primo
album in assoluto ad esempio è stato in spagnolo. Era il
1975. C’era stata chiesta una collaborazione antifranchista
da alcuni profughi spagnoli che vivevano a Torino. Nacque così
“Canti antifascisti spagnoli”. Quello dopo, con cui
abbiamo vinto il Grand Prix International Du Disque a Montreux,
era un po’ come “Collage” (vedi la circolarità
della comunicazione popolare... ogni tanto si riparte dalle origini...),
un affresco cioè della tradizione del Piemonte con spunti
di altre tradizioni italiane ed europee. Era il 1979. Nell’
82-83 abbiamo prodotto “La luna e ‘l sul”, frutto
di una “rigorosa-ricerca-sul-campo”, come si diceva
allora, nell’85 “Mità la strada”, nell’87
“La perla e l’ostrica” (forse il più ricco
di idee oltre che di collaborazioni) e così via, fino a “Controcanto
popolare”, uscito l’anno scorso con il Manifesto, dove
cantiamo le lotte italiane e internazionali per la libertà.
E siete arrivati a “Collage”.
Dicevi che “Collage” è un po’ un vostro
ritorno alle origini?
Direi di sì. Sia nello stile, volutamente scarno, sia nel
repertorio. Vi abbiamo per esempio inserito qualche piccola citazione
affettiva come LEVA LA GAMBA, il brano che dava il titolo all’album
del 79 che ci lanciò in Europa, e abbiamo anche ripreso due
nostri vecchi cavalli di battaglia come BARBAGAL e LA DANZA DELL’ESTATE,
insieme a qualche inedito assoluto. Abbiamo riaccorpato festa e
protesta in un linguaggio musicale, al di là di qualche piccola
concessione al computer, assolutamente folk.
Che cosa intendi per assolutamente
folk? Cosa è per te, anche terminologicamente il folk?
Quando ho cominciato a muovermi in questo campo c’era l’imbroglio
delle filande-folk di Milva, delle risaie della Berti e della Colli...
finché il “padrùn da li beli braghi bianchi”
non ha tirato fuori davvero li “palanchi” ed ha comprato
la cantante (Silvio et Ombretta docent!). Il tempo, a differenza
di certi personaggi, é davvero un “galantuomo”:
quanto meno chiarisce sempre ogni cosa. Basta avere pazienza e magari
aiutarlo un po’... In questo momento di confusione credo per
esempio che sia assolutamente da rivalutare questo termine di origine
anglosassone così agile e sintetico. Soprattutto perchè
può racchiudere in sè tutti i “sottogruppi”
(o “mega-gruppi”, a seconda di come li si guarda) dell’
“etnico”, della “world” e simili... Vedi,
io sono tra quelli che hanno maturato con molta fatica l’idea
di passare dalla definizione molto “militante” di “musica
popolare” a quella di “folk” per cui adesso la
difendo ad ogni costo, utilizzando, se necessario, qualunque stratagemma.
Se vuoi al termine folk oggi amo anche, per quanto riguarda il mio
ambito musicale, sposare la parola “combat”. Combat-folk
mi sembra perfetto! E’ stato il critico musicale della Stampa
Ferraris ha darmi questa idea, nel ‘94, con un articolo in
cui assimilava le nostre ultime esibizioni al combat-folk-rock dei
Gang (conoscendo e apprezzando molto Marino e la sua band la cosa
mi fece un grande piacere). “Contro-canto popolare”
uscì (credo per primo in Italia nel mio settore) con la copertina
tutta circondata da quel marchio.
Mi ha colpito molto il tuo riferimento precedente alla “ludicità”,
dato il grande risalto che dai all’impegno politico, alla
militanza culturale, ecc. Non c’è contraddizione?
No, perché non puoi essere un “giullare”, un
cantastorie, un vero musicante popolare se non sei anche un “homo
ludens”. E’ un assioma della cultura popolare che io
cerco in ogni occasione di mettere in evidenza. Da sempre amo ricordare,
specialmente ai giovani che di volta in volta si affacciano al Cantovivo
o al folk in genere, l’immensa differenza che c’é
(dovunque, ma ancor di più in questo campo) tra la serietà
e la seriosità... ricordando quanti agguati abbiamo dovuto
sopportare, sia da parte dei “puristi” (pericolosa categoria
di carcerieri del suono), che dai numerosi, troppi anche nel folk,
rompiballe-maldisposti-a-prescindere, quelli che Adorno aveva felicemente
definito gli “ascoltatori-risentiti”. Per me vivere
il folk è libertà e felicità di espressione,
di sperimentazione, di repertorio... Ma ...attenzione!!! Non dimenticando
mai il contesto di riferimento! Quella cultura popolare che ognuno
di noi deve studiare, conoscere, “metabolizzare”, prima
di rappresentarla in qualunque forma, anche la più personalizzata.
In questo sono felice di aver trovato, anche se ormai nella “maturità”
(ahimé), il mio “fratello maggiore” nel nostro
“tramite” alla pubblicazione di Collage, lo straordinario
Giancarlo Cesaroni del Folk Studio, fratello anche un po’
nella sventura e nell’irriconoscenza (subite!)...
Mi pare di cogliere in queste tue
ultime parole una piccola venatura polemica. Mi sbaglio?
Sì e no. Direi piuttosto che provo un po’ di tristezza
quando penso al grande patrimonio di cultura popolare che si sta
disperdendo in stages di “aerobic-folk-dance”, in “riletture”
mercantili pseudo-etnico-trending-world, in organizzazioni para-istituzionali
di taglio sovente indegno e vampiresco... Mi chiedo talvolta dove
sono finiti “il silenzio, la memoria, lo sguardo” dei
contadini, degli operai, dei partigiani, degli uomini e delle donne
che hanno ballato e cantato, dal Piemonte alla Sicilia, all’Irlanda,
al Vietnam... le loro feste, la loro felicità, ma anche il
loro dolore, la loro miseria. Uomini e donne come racconti in carne
ed ossa di un mondo che, disse bene Victor Jara, esso soltanto può
rappresentare il senso profondo della vita dell’uomo sulla
Terra...
Poi mi guardo intorno e vedo molti giovani che cantano, ballano
e suonano il folk, o l’etno-folk, o la world music o ... e
chi se ne frega delle etichette! E molti suonano il mio strumento,
la ghironda. E allora penso che in fondo la ruota continuerà
ancora a girare e questo mi mette allegria.
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