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IL FOLK E LE CANZONI DI PROTESTA
articolo di Alberto Cesa
Il fatto che sempre più spesso mi si presenti l’occasione, come in questo giornale, di parlare della mia idea del canto politico, mi rende felice, perché mi fa credere, con buone probabilità di azzeccarci, che sta rinascendo attorno a questo tipo di espressione un interesse che sembrava sepolto per sempre... La domanda che mi sento rivolgere più spesso è se la canzone di protesta (quella popolare, nata negli Anni ’60 e ’70) ha ancora motivo di esistere di fronte ai mutamenti delle condizioni sociali e dei relativi conflitti... Parlando per esperienza diretta, posso tranquillamente rispondere che le ragioni di impegno nell’ambito di questo filone sono pressoché invariate da trent’anni. Quando ho iniziato l’avventura cantoviviana nei primi Anni ’70, per esempio, l’America gettava bombe sul Viet-Nam... Cos’ è cambiato da allora? La qualità delle bombe e i bersagli... All’inizio degli Anni ’80 la Fiat “faceva le prove” preannunciando il licenziamento di migliaia di lavoratori. Ci fu quasi l’occupazione, un movimento di solidarietà strepitoso (noi stessi suonavamo con gli operai davanti ai cancelli, come ho raccontato nel mio foglio volante Ballantonio) che cancellò in parte la débâcle, fino a che i sindacati firmarono nella notte l’accordo più scellerato della storia operaia... almeno, così credevo fino a poche settimane fa, quando ho rivisto dietro il ghigno di Pezzotta la stessa maschera servile stampata sui volti dei 40.000 che sfilarono nella famosa marcia-padronale di chiusura di quei drammatici “35 giorni”. A me sono sufficienti questi due esempi per continuare a cantare-politico... E non sono il solo! Il mio concittadino Fausto Amodei, ricordato dai più per il tono epico con cui ha saputo raccontare i “morti di Reggio Emilia”, ma forse ancor più bravo quando metteva e mette la sua particolarissima vena compositrice al servizio della satira e dello sberleffo, di recente ha sorpreso me e altri del “giro” con alcune divertentissime prese per i fondelli dell’attuale banda governativa attraverso la rete... un’idea (quella della satira musicale in rete) che mi è piaciuta molto, tant’è che gli ho suggerito di continuarla, ampliarla, estenderla, creando un vero e proprio movimento da lui guidato e coordinato... Il mio amico Ivan Della Mea, dopo anni di “quasi” silenzio è già arrivato al secondo cd della sua nuova era (nel primo, Ho male all’orologio, mi ha fatto l’onore di ospitarmi con una sua bellissima canzone, Basta y Hasta) conservando intatta la sua grintosa poeticità. Sono alcuni esempi, se permettete insieme al sottoscritto e al Cantovivo, di come si possa ancora tradurre con profitto in linguaggi attuali e comprensibili un modo di essere e di cantare nato negli Anni ’60 e ’70 che sembrava destinato alla sparizione definitiva... E’ vero che molti protagonisti di quegli anni non ce l’hanno fatta a conservarsi né, a maggior ragione, a rinnovarsi, ma come contropartita, si è creata una nuova generazione che non di rado ha messo in campo idee belle, nuove, forti, innovative... penso a Daniele Sepe e a Enrico Capuano per citarne un paio. Lo so che parlando di canzoni di lotta, di impegno civile, di opposizione si va oltre i confini del genere musicale di appartenenza, e che per questo è successo spesso (e ancora succede... per fortuna!) che convivano nello stesso concerto, nella stessa manifestazione, in una compilation, linguaggi musicali a volte addirittura agli antipodi... ma dato il contesto in cui sto scrivendo, proverò ad analizzare questo fenomeno riferendomi esclusivamente al campo musicale che “coltivo” da quasi trent’anni: il folk. E qui sono “dolori”... Scherzo, ed esagero, però... La nuova generazione folk, come ho spiegato ampiamente più volte (per esempio nella lunga intervista fattami da Roberto Sacchi per il primo numero del 2002 del Folk Bulletin) è migliorata moltissimo, rispetto alla mia degli inizi, sul piano tecnico e musicale, ma è distante anni luce dall’approccio “visionario” e politicamente unificante nei confronti del canto popolare che caratterizzò i primi passi di formazioni come la nostra, ispirate (per noi fu così) soprattutto da “Ci Ragiono e Canto”, la leggendaria rappresentazione delle “Italie” popolari messa in scena alla fine degli Anni ’60 da Coggiola, Bermani, Della Mea, Giovanna Marini e altri grandi personaggi di quella stagione (con la regia di Dario Fo!). Oggi prevale la “festa” sull’impegno (spesso una scusa per mettere in opposizione due concetti che possono, e devono, assolutamente convivere), la danza sul canto, il canto “arcaico” sul canto di lotta... in parole povere mentre nel rock c’é un risveglio, seppure ancora timido, delle coscienze (sarà una scelta di marketing?), nel folk ci si “pizzica”, si “tarantola”, si “occitaneggia” dimenticando troppo spesso, e spesso troppo ostentatamente, la ragione-sociale del canto popolare: da dove arriva, chi rappresenta, perché e per chi esiste... Noi abbiamo scelto da un pezzo per Cantovivo il marchio “combat-folk” anziché “folk” e basta, anche per aprire in Italia una strada che a lungo abbiamo battuto in solitaria... Fu Gabriele Ferraris sulla Stampa di Torino a definirci così, dopo una kermesse multi-espressiva (antiberlusconiana) al Palasport. Perdemmo le elezioni, era il 94, ma quell’etichetta ce la stampammo su indelebilmente. Da allora un po’ alla volta non fummo più soli. Senza “scomodare” i soliti Modena C.R., altre formazioni cominciarono a scegliere la nostra strada. Ma si tratta sempre, per quanto lo ritenga necessario, in quest’era di pericolose bande nere al potere, di una strettissima minoranza... Per fare un esempio, domani (sto buttando giù queste righe disordinate il 25 ottobre) ci sarà una gigantesca abbuffata di gruppi piemontesi al Palastampa di Torino per cantare contro la guerra. Ebbene, dei venti e più gruppi che parteciperanno, di folk (in senso stretto) non ci sarà nessuno!!! Ci saremo soltanto noi a tenere alta, spero, la bandiera del combat-folk, insieme a un paio di gruppi folk-rock (dove il termine folk sta abbastanza stretto, se vogliamo pignoleggiare...) come i Lou Dalfin e gli Egin.
Quindi? Da un paio d’anni spendo buona parte delle mie energie per convincere ottimi giovani suonatori di ghironda, di organetto, di violino (fossimo stati noi così bravi trent’anni fa!!!) a lasciare un po’ da parte (solo un po’…) le magie delle courente, delle gighe, delle bourrée per aprire qualche finestra alle tante canzoni di lotta e di libertà che la tradizione popolare ci regala... Voglio precisare che io sono tra quelli che hanno sempre considerato il canto tradizionale un pugno nello stomaco alla cultura borghese dominante, un pugno forte della propria bellezza oltre che della propria valenza sociale... “a prescindere”, per dirla alla Totò, quindi anche nelle sue vesti più “bucoliche”... ma sono altresì d’accordo ancora oggi, per quanto non sia più “di moda”, con Berthold Brecht, laddove dice che “in tempo di guerra cantare di alberi e di fiori è un delitto”. Perché oggi SIAMO IN GUERRA!!! E se il buongiorno si vede dal mattino, chissà cosa sta per succedere sopra (e oltre) le nostre teste, ben o malpensanti che siano! Dunque chi ha in mano quella grande arma-di-pace che per sua natura è la musica popolare, provi, se già non l’ha fatto, a indirizzare un po’ del proprio estro verso questo terreno. Tutto è ancora coniugabile nell’immenso panorama espressivo del nostro piccolo-mondo-folk!!! Personalmente, dopo aver sperimentato la via del cantastorie con i miei “Fogli Volanti”, vorrei comporre “canzoni-in-movimento” per il movimento (pacifista, rivoluzionario, no-global)... Vorrei (ci sto già lavorando e spero che qualcuno mi cerchi per collaborare) che nascesse un canzoniere, come quelli che si scrivevano per le lotte anarchiche, per le mondine, per gli scioperi delle otto ore, per la Resistenza, per il Viet-Nam... Da oggi in poi chi sta dall’altra parte, o da... nessuna parte, lo dica chiaramente, com’è suo diritto, ma chi sta dalla parte degli operai, degli sfruttati, degli incazzati, dei pacifisti, dei ribelli, di chi vuole costruire un mondo più giusto e più libero, di chi crede che la canzone popolare possa ancora dare voce ai “muti della storia” e pertanto tornare a esserne nei teatri, nei circoli, nelle strade, nelle piazze (anche telematiche!) il più straordinario strumento di comunicazione... batta un colpo! Magari nel 3/8 della “bourrèe a tre”... Com’è possibile, diranno i più “pigri”, fondere la rabbia con la poesia? Fernanda Pivano, che conosce e ci ha fatto conoscere meglio di chiunque altro, la “faccia bella” dell’America, in un ricordo televisivo della beat generation ha detto: ”se oggi ci fossero i Corso, i Ginsberg, i Kerouac, i Ferlinghetti... le cose non andrebbero così male! Bombarderebbero l’America di poesie e probabilmente l’America non andrebbe in guerra...”. Con un po’ di nostalgia generazionale (concedetemelo!) condivido pienamente. Anche Pasolini ebbe a dire che la poesia, e forse la poesia soltanto, avrebbe riscattato l’umanità. E dove c’é più poesia che in un canto popolare?
ottobre 2002 - RIVISTA TRAD ARRANGED
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