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LA CORNAMUSA
Alberto Cesa
La cornamusa è uno strumento “ad ancia”. Presenta canne multiple (da 2 a 4) messe in funzione dalla compressione di una sacca di pelle che serve come deposito d’aria e consente la produzione di un suono continuo. L’aria entra nelle canne e le fa suonare provocando la vibrazione delle ancie poste in ogni imboccatura. Le ancie, sottili linguette di canna (oggi anche di plastica) sono di due tipi: semplici (linguetta unica, libera ad una estremità e fissa dall’altra, tipo “clarinetto”) e doppie (due linguette appaiate, tipo “oboe”). Di solito le ancie doppie vengono usate per le canne del canto, le semplici per le canne di bordone destinate a sostenere la melodia con note fissate sulla tonica o sulla dominante. La prima cornamusa di cui si ha notizia sicura, risale al 1° secolo d.C. Svetonio, lo storico dei Cesari, così racconta di Nerone: “verso la fine della sua vita egli aveva pubblicamente promesso che, se avesse potuto conservare l’Impero, nei giochi per celebrare la sua vittoria si sarebbe esibito in una esecuzione con la “choraula” e l’ “utricularium”. Quest’ultimo nome indica un’otre di cuoio e quindi, con ogni probabilità, una cornamusa. Una conferma in proposito ci viene da Dione Crisostomo, greco e coevo di Svetonio, che ancora di Nerone afferma: “sapeva come suonare la canna e come comprimere il sacco con il braccio”. La cornamusa, di derivazione orientale, conosce in Europa la sua maggiore diffusione nel Medioevo. La prima citazione medioevale si trova in una lettera apocrifa di S. Gerolamo a Dardano, che si può far risalire al IX° secolo: “il chorus è una semplice pelle con due canne d’ottone. In una di esse si insuffla l’aria ed il suono viene emesso dall’altra”. Un archetipo della cornamusa europea è probabilmente la “piva a vescica” che, con una o due canne e una vescica di pecora (o di capra) per deposito d’aria, fu un tempo tanto popolare da trasmettere il proprio nome ad una danza, vivace e molto simile al saltarello. Il tipo più antico di cornamusa medioevale conosce non più di un bordone. Nel ‘200 compare in una miniatura della “Cantigas de Santa Maria” il modello a due bordoni. Il tipo con tre bordoni è post-medioevale. Strumento pastorale, indiscutibilmente legato alla musica popolare, la cornamusa conosce qualche sporadica “deviazione”: nel sec. XV° viene usata nelle corti e nel ‘700 l’infatuazione arcadica dei nobili francesi la porta in auge con una variante aristocratica, la “musette”, che sfoggia una sacca ricoperta di seta o di velluto, un mantice, due sottili oboi cilindrici uniti insieme ed un oboe di bordone lungo quindici centimetri. In alcuni paesi diventa lo strumento nazionale per motivi militari (sono famose in tutto il mondo le bande scozzesi che suonano l’”highland bagpipe”), in altri per motivi di sostegno a identità etnico-culturali (“biniou” bretone e “gaita” galiziana). Una caratteristica che può permettere una schematica classificazione delle cornamuse oggi esistenti è il modo con cui se ne alimenta la sacca: - Tipo “a-bocca”: il suonatore soffia aria nella sacca per mezzo di una canna (sono così tutti i modelli italiani, l’highland bagpipe, la gaita...) - Tipo “a-soffietto”: un soffietto simile a quello impiegato per attizzare il fuoco è collegato con un tubo di pelle alla sacca e viene mosso dal braccio del suonatore (sono così la “cabrette” francese, la “uillean pipe” irlandese, alcuni modelli ungheresi e slovacchi...) In Italia ha ancora una certa presenza la “zampogna” del Meridione, anche se l’avvento dell’organetto e l’uso progressivo ristretto al periodo natalizio ne hanno di gran lunga ridotto il numero e impoverito l’antico repertorio. E’ da considerare praticamente estinta invece la “piva” dell’Italia settentrionale (una canna del canto, uno o , più spesso, due bordoni) che pure era in uso fino a qualche decennio fa. Numerose sono le testimonianze in proposito: “a Rava di Valtorta, nella Val Brembana”, ricordava Roberto Leydi, “esiste una famigliola soprannominata i “Pia”, perché il nonno era stato un rinomato suonatore locale di piva”. A Brescia i più anziani conservano nella memoria l’immagine degli spazzacamini che, ancora negli Anni ‘30, scendevano dalle valli vicine (soprattutto dalla Valcamonica) e in occasioni delle feste, abbinavano alla loro attività la “questua” con cornamusa e “piffero”(una specie di oboe popolare). Nell’Appennino parmense molti ricordano “Bigiòn da la piva”, di Roccaprebalza, che durante la festa di S.Antonio, a Berceto, nell’osteria centrale del paese, faceva ballare la gente suonando sopra un tavolo. Nel Reggiano c’é chi ricorda i pastori che scendevano dalle montagne suonando la “piva del Carner” (nome derivante forse da un antico suonatore), o i musici ambulanti che spesso, oltre a suonare la piva, facvevano ballare l’orso in cambio di qualche soldo e dell’ospitalità. Ancora in Emilia, nei piccoli centri ormai semi-spopolati dell’Alto Ramisetano, a est del secchia, i vecchi ricordano che “una volta, quando c’era ancora la gente, si ballavano le tarantelle, le furlane ed il ballo della piva... e i suonatori suonavano il violino, la chitarra, la fisarmonica, ma prima ancora la piva!”. A Pradaglia, nell’Appennino alessandrino, è morto nel 56 l’ultimo suonatore di “müsa”, un particolare tipo di piva da accompagnamento. Nella stessa area “Carlon e Carlàia”, rispettivamente con piffero e müsa, giravano per i paesi suonando un’accoppiata strumentale che ricorda la bretone bombarda-biniou, fino a quando, con la scomparsa di Carlàia finì anche la tradizione della müsa, sostituita nell’accompagnamento al piffero, ancora presente, dalla più “moderna” fisarmonica. La parola piva deriva dal latino “pipàre”, ovvero pigolare, zufolare. “Questa cornamusa arcaica, rustica, sfortunata”, scrive Bruno Grulli sulla rivista Il Cantastorie, “non ha mai conosciuto operazioni di rilancio sofisticate e revivalistiche come le sorelle bretoni, scozzesi e di altre regioni europee. Non ha subito
pubblicato dalla rivista VERDE
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