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UN ANNIVERSARIO RIVOLUZIONARIO
dal DISCOLIBRO “iFOGLI VOLANTI di Alberto
Cesa - diario di un musicante” (il manifesto - 067)
Nell’estate del ‘74 credo di essere stato tra i primi
ad acquistare l’LP di José Afonso arrivato in Italia
sull’onda della rivoluzione dei garofani portoghese. Questo
perché vivevo la “malattia infantile dell’estremismo”,
soprattutto nelle mie instancabili esplorazioni del folk e della
canzone di protesta di quegli anni. Mi colpì la bellezza
suadente della sua voce, la grande cura espressiva con cui raccontava
eventi a dir poco stupefacenti per una Europa ancora sonnolenta
di fronte alle lunghe code fascistico-autoritarie di alcune sue
regioni (come la Grecia, la Spagna e il Portogallo appunto, dove
si stava archiviando uno dei regimi più feroci e lontani
dalla civiltà europea di riferimento). Fui affascinato dal
suo fado e dal suo stile di canto limpido, lineare, da sempre il
più vicino alle mie “intenzioni” artistiche,
a fronte di una dilagante sommarietà esecutiva (salvo “eccezionali”
eccezioni) nella canzone popolare e di opposizione nostrana.
Il clou di quell’LP era ovviamente Grândola vila morena
la canzone che era stata utilizzata come segnale, un minuto dopo
la mezzanotte del 24 Aprile 1974, per lanciare la rivoluzione dei
militari (incredibilmente a maggioranza “rossa”) che
avrebbe cancellato per sempre il salazarismo.
Quando si dice il fado, il destino appunto.
Quell’evento coincideva con i primi passi del Cantovivo e
25 anni dopo, ovviamente, con il nostro Venticinquennale. Fantastico!
Ma il fado volle addirittura strafare! Perché ci portò,
alle soglie del reciproco anniversario, nella terra da cui Grandola
vila morena partì per cambiare la propria nazione e, non
dimentichiamolo, l’Europa (poco dopo fu la volta, seppure
in forma più blanda, della Spagna).
Tra l’Agosto e il Settembre del ‘98 dunque suonammo
una trentina di volte in Portogallo, toccandone ogni angolo, ogni
città d’arte, ogni villaggio di mare, ogni centro rurale
di pianura e di collina... ovviamente sempre non vedendo l’ora
di cantare la bellissima Grandola (con cui avremmo chiuso l’anno
successivo Folkanniversario, il nostro doppio CD del Venticinquennale)
in Alenteja, la sua regione d’origine, la più rossa
del Portogallo, se non del mondo. In cui arrivammo finalmente verso
la fine della tournée. Nel frattempo quel canto l’avevamo
straprovato durante gli infiniti trasbordi in furgone da un concerto
all’altro, da una stratosferica abbuffata all’altra
di polvo, arroz marisco, bacalhau e vinho verde...
A Beja, capitale dell’Alenteja, ci raccontarono che Grandola
(ma ormai custodivamo come reliquie rivoluzionarie i nostri pugni
chiusi polaroidizzati davanti alla prima insegna indicante la città)
era soltanto casualmente passata alla storia, per via di quel canto
di José Afonso, mentre in realtà la città principe
della regione principe della rivoluzione dei garofani era Beja:
75% di comunisti (nel ‘98!), 20% di socialisti, un po’
di socialdemocratici...
“Cerchiamo casa!”, fu la nostra prima reazione.
Poi spiegammo all’assessore comunista, una donna di grande
fascino umano e intellettuale, che volevamo celebrare il reciproco
venticinquennale regalando al popolo di Beja una nostra interpretazione
di Grandola vila morena.
“Va bene”, ci rispose cordialmente. Sì, solo
cordialmente! Ci stupì molto, dopo tanta attesa, quella assoluta
assenza di compiacimento.
Mah?!
Arrivò la sera. Partì il concerto. In un grande spiazzo
nel bellissimo parco pubblico (sono costanti delle giunte-rosse
di tutto il mondo...) della cittadina. Suonammo a lungo prima di
trovare il coraggio di lanciarci nel concordato omaggio canoro.
Spiegai al pubblico della comune età del gruppo con quella
della loro rivoluzione, di come incontrai Grandola tanti anni fa,
delle prove maniacali che avevamo fatto in pulmino nei giorni precedenti
per essere all’altezza della situazione ecc. ecc.
Raccogliemmo un applauso di circostanza. “Mah?! - pensai -
forse sono un po’ come gli occitani che gli girano comunque
i coglioni se fai delle loro canzoni!”. Ma no! Era un cattivo
pensiero, e vecchio! Tanto più che lì avevo con me
in formazione, oltre agli abituali Massimo e Silvano, ben “due
occitani doc due”... e dei migliori sulla piazza: Celeste,
uno strepitoso organettista e Gabriella, la sua compagna, bravissima
sia al traverso che alla ghironda (tra l’altro provenienti
dalla Chastelado, la parte più alta e nobile della super-occitana
Valle Varaita...).
Ma allora?
Non riuscivo a capire! Non erano stati proprio i comunisti ad adottare
quel canto facendone il loro inno nazionale da affiancare all’ex
interplanetario Bandiera rossa? Ormai eravamo in ballo. Un cenno
secco ai miei compagni e via!!! Ci lanciammo finalmente nella nostra
storica performance. Che fu assolutamente dignitosa. Comunque ai
confini delle potenzialità umane del pathos. Le nostre schiene
erano percorse da brividi-rivoluzionari! Io poi, che a differenza
dei miei compagni più giovani, quegli anni li avevo vissuti
direttamente, ero arrivato a una tensione incontrollabile.
Ad un tratto, non udendo la tanto attesa partecipazione del pubblico,
alzai gli occhi dal leggio: la bella signora assessore alla cultura
canticchiava, sì, ma timidamente . Attorno a lei molte statue
di sale. Contai, sì e no, una ventina di bocche canterine.
Da un chiosco li vicino, a completare il quadro deludente, arrivarono
anche un paio di fischi da parte di alcuni di quei ragazzi che abitano
ormai tutte le periferie del Villaggio Globale. Concludemmo comunque
bene, con un bell’accordo vocale. L’applauso fu in parte
riparatorio. Si alzò addirittura dalle sedie una anonima,
ma chiarissima, richiesta di Bandiera rossa. Potevamo rifiutare?
La cantammo con l’impeto delle grandi occasioni, con tanto
di pugno alzato ad onorare quella che era stata pur sempre una delle
più gloriose e combattive terre della storia.
Alla fine cercai di capire quale sortilegio avesse potuto trasformare
una regione così dichiaratamente rossa in una tanto timida,
se non quasi negazionista, portavoce della propria neanche così
lontana rivoluzione. Mi riapparve l’Italietta democristiana
in cui la dicì raccoglieva i due terzi dei voti e puttana
la miseria se incontravi uno che la votasse... Ma quelli erano democristiani,
avevano ottime ragioni per nascondersi. Qui no! Qui erano comunisti,
socialisti, tutti con sacrosante ragioni di orgoglio ecc. ecc. Dal
versante istituzionale non ebbi risposte esaurienti. Decisi allora
con i miei compagni di gettarmi in una festa strapaesana poco distante,
dove sicuramente avremmo incontrato, tra gli operai e i contadini
(ce ne sono ancora tanti lì...), quelle tracce di rosso che
forse la burocrazia del potere aveva nascosto o cancellato. Arrivammo
alla festa. Bevemmo milioni di bottiglie di vinho verde. Mangiammo
cose strane, fatte apposta (tutto il mondo è paese, ma lo
è di più nelle feste di area rossa) per assetarti.
Finalmente notammo un gruppo di uomini iconograficamente coincidenti
con la nostra ricerca. Cantavano canzoni popolari. “Andiamo!”,
fu il nostro grido di battaglia! Ci avvicinammo a loro col piglio
audace degli “alcolisti noti”. Offrii il primo giro
di verde (il vinho verde ricorda molto l’Arneis del Roero,
perla piemontese, a noi stra-familiare, dei vini bianchi del mondo).
Ci sorrisero! Cantarono un pezzo!
Mi sbilanciai: “conoscete Grandola?”. “Come no?!”
e presero a sorridersi in codice. Borbottarono qualcosa, defilandosi
visibilmente dagli sguardi qualunquisti dei ragazzi-del-villaggio-globale
che lì intorno si facevano ovviamente i cazzi loro, sicuramente
assai poco assimilabili ai risultati elettorali di quella regione
in cui pure avevano sicuramente votato (l’astensione è
ancora ai livelli, come molte altre cose, fortunatamente per loro,
dei nostri Anni ‘50).
Finalmente attaccarono!
E scoprimmo la Grandola popolare, quella cantata a denti stretti,
con accordi vocali da super-stars della Real World. Sul finale non
riuscii a controllarmi. Strinsi loro la mano, così come fecero
i miei complici Massimo e Celeste, ad uno ad uno, inserendo qua
e là alcune poderose pacche sulle spalle.
Li chiamammo compagni.
Raccontammo loro come finalmente avevamo trovato comunisti-alla-luce-del-sole,
felici di non nasconderlo... “Perché voi - azzardai
quasi per scaramanzia - siete comunisti, vero?!”. Erano una
dozzina.
Contai, in senso orario (o anti-orario: ma non sarebbe stato peggio),
una sequenza di interminabili “nooo!”... fino all’ultimo
di quei ragazzi, il più grosso, che finalmente ci gridò
con forza “io sì! Compagni!”.
“Ma va affanculo! - mi scappò con il tono marxista-leninista
degli ...insulti cordiali degli emiliani - allora paga da bere!!!”.
Poveraccio! Offrì decine e decine di bicchieri a tutti...
Finisce sempre così per i compagni...
Ma lo era poi davvero?
O fu soltanto gentile di fronte alla nostra visibile delusione?
Come dice la canzone?... Em cada esquina un amigo...
Alberto Cesa (racconto scritto nel 1998)
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