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UN VIOLINO DI MONTAGNA
per nessuna conoscenza l’esperienza
è così indispensabile come per
la giusta valutazione del continuo mutare delle cose
(Schopenhauer)
dal DISCOLIBRO “i FOGLI VOLANTI di Alberto
Cesa - diario di un musicante” (il manifesto - 067)
La storia del violino popolare è ricca in tutto il mondo, con
punte europee di grande tradizione. Anche nel nostro paese comprende
alcune belle “isole felici”, come l’emiliana Valle
del Savena.
Un giorno ci toccò di dividere la serata con il violinista-dei-violinisti
dell’Italia popolare, l’anziano ex contadino Melchiade
Benni, proveniente proprio da quella zona di montagna. Ne avevano
risvegliato la memoria (una novantina di arie tradizionali: una miniera
di diamanti musicali!) alcuni ottimi ricercatori della sua regione,
che lo avevano anche convinto a incidere dischi e a suonare in giro.
Io ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte, di ascoltarlo,
di apprezzarne, insieme alla bravura, la saggezza e la sorprendente
ironia.
In quell’occasione, credo fossimo a Padova, il concerto si svolgeva
in un contesto di cultori seri-e-preparati, di quelli che tradivano
l’aria autopunitiva dello sforzo intellettuale, lo sguardo rancoroso
dell’assoluta incapacità all’arte... sempre pronti
a farti le pulci su qualunque aspetto della tua “riproposta”:
tecnico, espressivo, culturale, filologico...
Quel mondo (allora assai popolato) di rompicoglioni, contrastava,
in quell’occasione in modo particolarmente visibile (assai vicino
al paradossale), con l’assoluta naturalità di Benni e
dei suoi compagni. Una semplicità che avevo già ammirato,
in quel vulcanico ultra-ottantenne della Valle del Savena, durante
la lunga chiacchierata del pranzo, con i suoi aneddoti spiritosi,
le sue osservazioni sulla musica sempre pungenti e interessanti, i
suoi ricordi...
Toccava a noi aprire la serata. Scegliemmo le canzoni più “di-ricerca”
per non “infastidire” troppo quel consesso di studiosi...
Suonammo bene, credo, perché ci batterono generosamente le
mani.
Toccò quindi al grande Melchiade e alla sua band felliniana
(nel senso più rispettoso e affettivo). Salendo sul palco mi
strinse la mano e mi lanciò un sorriso d’intesa...
Un gran bel regalo!
Aveva un viso spigoloso, Benni, con due occhi scuri, vispi e mobili
che ti catturavano. Un’espressione così tagliente, ironica
e severa allo stesso tempo, un po’ Govi un po’ Lenin,
l’avevo incontrata un’altra volta soltanto nella mia vita.
In Sardegna: sul volto del leggendario “Galletto di Gallura”,
Salvatore Stangoni, l’ultima voce “in ottava” della
tradizione gallurese. Ero riuscito a incontrarlo, già molto
anziano (e famoso per il Ci Ragiono e Canto con Fo), ad ascoltarlo
con il suo Coro di Aggius, e a parlargli a lungo, in una delle prime
estati degli Anni ‘70, durante uno dei miei soggiorni su quella
straordinaria isola.
Entrambi mi avevano disegnato l’immagine di un mondo popolare
culturalmente ed umanamente al tramonto, che lasciava dietro di sé
il ricordo di una grandezza ed una dignità irripetibili, ma
mi avevano regalato, anche, due esempi concreti di leggerezza spirituale
ancora attuale e praticabile... (certamente non da parte di quei sedicenti,
effimeri, “cultori” di cui sopra).
Benni suonava il violino appoggiato al torace, nell’incavo sotto
la spalla, un po’ come i suonatori country americani. La cosa
intrigava molto quegli attenti osservatori, che alla fine del concerto
lo assalirono per catturargli tutte le... conferme alla loro scrupolosa
preparazione teorica.
Fu esilarante!
Provo a sintetizzare. “Quel suo modo di tenere il violino
basso sul torace - esordì un ragazzotto in formato campus-americano,
un po’ pre-veltroniano - è una caratteristica stilistica
specifica del suo territorio, o si trova anche in zone limitrofe?”.
“Caro mio - fu la risposta - se alla mia età tenessi
il violino sulla spalla, come facevo da giovane, riuscirei a suonare
sì e no un paio di pezzi... chi ce la fa più a reggerlo
quassù”, concluse, mimando il gesto e sparandosi una
risata delle sue...
Stroncati su quel versante, il gruppetto di quegli assatanati puristi
non si rassegnò... dovevano pur dirglielo che loro conoscevano
l’involuzione del ballo emiliano, degenerato nel liscio, con
il basso, la batteria, “mentre con lei - come disse il più
acculturato (tra gli sguardi di approvazione degli amichetti) - si
può ballare al ritmo giusto, con le cadenze giuste, con i colpi
d’archetto saltellanti, le corde doppie...”. “Macché!
- lì zittì il nostro - lòro... fanno ballare
bene! Perché per far ballare bene “tzi vuòle”
il ritmo! La batteria, il basso... Tum tum... Altro che balle! Per
forza hanno successo, lòro! Noi facciamo delle cosine così,
ci divertiamo...”. E li mollò! Si voltò verso
il collega del “tuba”, imperturbabile nel suo completo
grigio scuro (con regolare fazzoletto bianco nel taschino), gli fece
un cenno e insieme se ne vennero verso di noi.
Ridendo e scherzando, fu una grande lezione, la sua! Perché
riuscì a concentrare in due risposte “concetti”
su cui si erano consumati quintali di carta e di inchiostro: quali
il valore assoluto della libertà espressiva, la storicizzazione
(“auto”, nel suo caso) come antidoto all’inarrestabile
trasformazione delle cose, l’ironia come immensa risorsa per
la propria e l’altrui conservazione-culturale, l’animo
allegro con cui conquistare il “nuovo”...
Andammo ancora insieme a farci un boccone e a berci un paio di bicchierini.
L’indomani mattina li aiutammo a sistemarsi per il ritorno.
Avevano una vecchia millecento. Mettemmo le valige, il violino, la
chitarra e la fisarmonica, nel baule.
Ci abbracciammo come due famiglie di emigranti, poi, quando il suonatore
di basso-tuba finì di legare con lo spago il suo enorme strumento
al portabagagli... se ne partirono tranquillamente verso casa.
Alberto Cesa (racconto scritto nel 1998) |