IL GIORNO E LA NOTTE
due elementi, come il Sole e la Luna, la vita e la morte,
la luce e il buio, l’uomo e la donna, lo ying e lo yang, il Toro e la Juve,
Cip e Ciop, Cossutta e Bertinotti ...
che nel mondo popolare scandiscono il “ritmo binario” dell’esistenza

dal DISCOLIBRO “i FOGLI VOLANTI di Alberto Cesa - diario di un musicante” (il manifesto - 067)


Arrivare a casa alle prime ore del mattino e doversi poi alzare alle sette... non è quello che generalmente si chiama “la routine”. A me invece capitava spesso. Non solo per la testardaggine degli anni ruggenti nel difendere, fino all’ultimo secondo, la libertà del ritmo veglia-sonno, contro il “tentativo quotidiano del sistema di incastrarti nella normalizzazione del suo ritmo produttivo”... Neppure per quel maledetto e indescrivibile piacere del tirar-tardi. Neppure ancora per la superiorità filosofico-kessleriana della notte (“troppo piccola per noi”). Neppure per l’impossibilità di abbandonare in fase crescente i (quotidiani!) momenti-straordinari, pena il sacrificarli (per sempre?) alla grigia devozione benedettina verso l’efficienza del domani...
Probabilmente nel mio caso la spiegazione era, ed è, scientifica: sono un vagotonico! Dalla nascita! Di quelli che partono con “il-giorno-per-la-notte”... per la gioia di mamma e papà (altri due elementi che potrebbero arricchire il sottotitolo di questo Foglio). Fin da ragazzo, dunque, trascinavo all’alba chiunque mi capitasse sotto tiro. Ero il diletto o l’incubo degli amici, a seconda del giorno della settimana.
A niente valeva l’invidia-dell’alba verso i “colleghi-integrati” di turno. Ricordo una di questi che mi appariva ogni mattina (uòu, uòu) con dei sorrisi ed una freschezza da far schiantare d’invidia la Lambertucci... Superata la “messa a fuoco” la ricambiavo al quarto o quinto cenno di saluto per abbandonarla subito dopo al suo destino. Un giorno trovai l’energia per domandarle... “Ma come cazzo (cazzo forse no, era molto per bene) fai a presentarti così?”. “Semplice!” mi rispose, non mi alzo all’ultimo minuto, come immagino farai tu!”. Touché! Ma come spiegarle, con le forze del mattino, il valore universale di un minuto?! Proseguì quindi, con l’ironia leggera dei... commendatori-del-lavoro: “mi alzo alle cinque!” (Ahi!!!), “Faccio colazione con mio marito!” (Beh!), “Facciamo due chiacchiere!” (Sic!), “Ascoltiamo un po’ di radio”... (Ahh!!!). Ero stremato! Troppo, in una volta sola! Alle mie prime luci del giorno! Ma lei, impietosa, portò l’affondo. Di rimando alla mia provocatoria allusione “ma andrai a dormire alle otto di sera?!”... mi stese con un ineffabile “ma che accidenti (era per bene) dici! Vado a dormire tardi! Talvolta tardissimo!”. “Ciapa lì! - pensai - tu (io) ed il tuo stupido vanto esistenzialista del fascino perduto del nottambulo!”. Finché, ormai incontrollabilmente altezzosa, chiosò: “mai prima delle dieci... qualche volta facciamo perfino le undici!...”. Pensai a Tenco! Alla tristezza infinita di quella vita che un giorno dopo l’altro se ne andava ... Pensai ai compagni con cui nella notte avevo parlato, cantato, bevuto, progettato, “cospirato”, sognato... e ringraziai la mamma!

Dalla Padella...
A cavallo tra gli Anni ‘70 e gli ‘80, nel pieno dello splendore del folk europeo, trainato (i “puristi” bretoni si rassegnino...) dai successi internazionali di Alan Stivell, capitò una cosa incredibile: Leva la Gamba, il disco che pubblicammo nel ‘79 sull’onda della svolta espressiva che avevamo appena intrapreso, vinse il Grand Prix International du Disque a Montreux. Cominciarono le tournée all’estero. In Svizzera, Francia, Belgio, Austria, ma soprattutto in Germania (anche se purtroppo soltanto Ovest: avremmo voluto vedere l’altra com’era, ma forse è stato meglio così...), dove, per una di quelle belle stranezze della vita, avevano pensato bene di accoglierci nientemeno che come l’equivalente settentrionale della Nuova Compagnia di Canto Popolare, allora stra-popolare.
Eravamo un sestetto. Una formazione che avevo messo in piedi tra il ‘78 e il ‘79 e che sarebbe durata uguale fino all’84. Accanto alle voci soliste mia e di Donata (io, oltre alla chitarra, “pasticciavo” anche un bel po’ di nuovi strumenti “etnici”) e al basso vocale di Franco (nel frattempo diventato organettista ed estroso suonatore di hackbrett), avevo inserito Guido, un eccellente chitarrista (che si era già fatto le ossa con Maolucci, il cantautore torinese destinato più tardi a un’extra-notorietà per l’invenzione del ”survival”...), Livio, un violinista dal piglio leggero e naïf, piemontese dal cuore (musicale) nord-europeo... e soprattutto (perché tuttora una colonna di Cantovivo) Umberto, un bassista fusion-rock, diventato presto uno dei primi e più originali bassisti acustici del folk italiano, oltre che un bravo organettista. Comunque tutti ottimi cantori (senza eccezioni), gran bevitori (a eccezione di Guido), comunisti-atei-e-mangiapreti (a eccezione di Franco), “tombeurs de femme” (a eccezione di... Donata), tendenzialmente tifosi del Toro (suggello massimo alla sfiga strutturale della nostra scelta di campo...)
Dunque quel giorno eravamo lì, nella patria di Schnellinger e di Goethe. E per la precisione, a Herding.
Herding era (lo è tuttora) un piccolo borgo “caratteristico” alle porte di Monaco di Baviera. Dopo un breve tour tedesco avevamo fatto lì l’ultimo concerto, alla fine del quale fummo ospitati dal connazionale Gino, al suo ristorante La Padella.
C’erano i nostri abituali amici sardi di Monaco, capitanati da Terenzio. quelli che ogni volta che passavamo di lì ci ospitavano con montagne di affetto, birre, formaggi e canonau...
Eravamo una bella tribù, perché, oltre ai sei suonatori e ai tre tecnici (tempi di grandeur!), c’erano alcuni amici che ci avevano seguito da Torino.
Alla Padella di Gino tutto cominciò, come mille altre volte, con una grande mangiata, a cui collegammo l’ennesima cantata dopo-concerto: una di quelle performances in cui davamo probabilmente la parte migliore della nostra musicalità, fino a farne un marchio di distinzione con relativo buon motivo di reingaggio.
Come ogni sera, si era fermata ad ascoltarci una discreta rappresentanza tedesca. Quella notte era mista: non c’erano cioè soltanto i numerosi fricchettoni multicolor di quegli anni, c’era anche un buon numero di esponenti di un mondo a noi abitualmente e decisamente estraneo, quello della Bavaria-bene, comprendente nientemeno che un inappuntabile sostituto procuratore di Monaco (allora regno del colosso-cristiano-sociale-mastino-Strauss)!
Non ci badammo. Cantammo di tutto. “Tanto non ci capiscono”, pensavamo. Finché proprio lui, l’imperturbabile magistrato, si girò verso di me e mi chiese qualcosa. In Italiano! Perfetto! Da far invidia a Daniele Piombi! Il caso volle che immediatamente dopo partissero da qualche parte, inequivocabili, le note di Bandiera Rossa... Girai istintivamente gli occhi verso di lui. Mi sorrise in modo strano.
“Eccoci sistemàti”, pensai! Anche perché stava posando ad uno ad uno su di noi uno sguardo ormai inequivocabilmente professionale... Non dimentichiamo che era il tempo del terrorismo, dei posti di blocco (particolarmente spettacolari nel loro taglio cinematografico-retrospettivo quelli tedeschi), che era il tempo dei sospetti, perfino tra parenti... Per questo mi stavo preparando al peggio... Invece? Che cosa successe? Cosa fece il nostro “doktor richter di Bavària”?
Cominciò a cantare!
Jàaa!!! “Zicùuuroo”!!!
A cantare!
Sapevo che la Germania ha storicamente un rapporto complesso con la Sinistra. Lì i comunisti li avevano sconfitti sul nascere, alla maniera-di-Germania: eliminandoli tutti! Fisicamente! Nel dopoguerra erano sempre stati quattro gatti, lontani perfino dal quorum elettorale del 5%. Erano un mistero “catacombale”.
Io ne avevo conosciuto uno in Sardegna molti anni prima. Era un tipografo. Una sera venne al nostro “angolo-cospiratorio” del campeggio gallurese (segnalato con grande “senso della vigilanza” da una bandiera rossa issata sull’albero più alto) dove, tra un’orata e una murena alla brace, non avevamo smesso un secondo di... “preparare” la rivoluzione. Attraversò con piglio marziale tavoli, materassini, corpi sparsi, dirigendosi verso la mia postazione musicale (ero seduto in terra con l’inseparabile yamaha in braccio) in un silenzio totale, gelido, rotto soltanto dal cupo fragore delle onde poco lontane.
Quando vidi la sua ombra gigantesca ormai sopra di me pensai: eccolo qua, l’ex nazista in vacanza (avanguardia di un gruppo di bestioni ancora nascosti), pronto a farci il culo (mi venne in mente il racconto dell’infanzia di quei tre tedeschi che da soli, sopra un side-car, avevano “occupato” l’aeroporto...).
Passarono due secondi infiniti. Eravamo così sorpresi, nel nostro rilassamento vacanziero, che non riuscimmo né a dire, né a fare niente.
Con un gesto imperioso ed il volto cattivissimo, mi mise sotto gli occhi un foglio stampato in tedesco.
“Ecco”, pensai, “anche l’umiliazione di leggere un suo comunicato!”.
Invece era... la versione tedesca di Bandiera Rossa!
Dopo averlo mandato a cagare (in piemontese, non si sa mai) fraternizzammo ecc. ecc.
Ma questa è una storia del ‘71. Qui eravamo negli Anni ‘80 e, comunque, giocavamo in casa: di Gino! Il Grande Gino, che continuò imperterrito ad offrirci da bere fino alle prime luci dell’alba.
Non so come raggiunsi l’hotel.
Al mattino mi alzai, come sempre, per ultimo. Erano le 12! Il tempo per la colazione scadeva alle dieci.
Provai a commuovere il gestore:
- Bitte schön (più gestualità)...
- Nein!
- Ma io pago (più gestualità nervosa)!
- Nein! E se ne andò.
Mi venne allora un’idea. Perché non sedermi a un tavolo come un comune avventore? In fondo ero in un hotel ristorante. Attuai il piano. Dopo pochi istanti si presentò una cameriera.
- Desidera?
- Vorrei un caffé, un po’ di pane, un po’ di marmellata!
- Jàaaa!!!
E’ andata! Gongolai, autocompiacendomi dell’italica furbata e innamorandomi perdutamente di quella stupenda bavaresotta...
Passò neanche un minuto che quell’angelo era già tornato al mio tavolo per ... urlarmi un terrificante, indimenticabile Nein! Non ci vidi più. Puntai dritto alla cucina. Avrei sicuramente “corrotto” qualcuno, se non fosse bastata la mia aria minacciosa.
Vi entrai urlando. Nessuno mi... cagò! Allora mostrai una manciata di banconote tedesche e scandii nel migliore sturmtruppenese: “ìo non volére colaziònen di hotél, io volere kaffee (con precisissimo accento sulla a) come una “perzòna” che viene qui a mangiare (dissi anche a essen) e chiede “uno càfe” con pane, mit bròt... jàa?!”.
-Jàaaa?!?!...
Il cuoco, un omaccione di due metri, prese un coltello da cucina e me lo puntò dritto alla pancia! Poi, tutto paonazzo, cominciò ad urlarmi contro una serie gutturale di raus! raus! rausssss!!!”....

... Alla Padella
Restai di... stucco! Sentivo i miei compagni in strada, sotto la finestra della cucina, che ridevano come dei matti. Uscii incazzatissimo a cercare solidarietà. E loro, che non credettero mai al coltello, per tutta risposta mi risbatterono in faccia la bella serie di rausss che avevano appena ascoltato... e continuavano a sghignazzarmi addosso! Li mandai a “ffanculen” e mi misi a girare come un cane perso. Era tutto chiuso!
Tutto maledettamente chiuso, in quel cazzo di lindo-borgo-bavarese dove la domenica gli abitanti scopano le strade! Ero ormai al limite della disperazione quando nell’aria esplose un grido tanto solidale quanto stupefacente nella sua ovvietà: “da Gino! Andiamo da Gino!”. Sentirlo e farlo fu per tutti una questione di secondi.

La grande bouffe
Gino ci accolse con la solita gentilezza. Ci accomodò nel dehors. C’era un bel sole e un’aria familiare. I camerieri erano tutti italiani simpatici (non sempre all’estero il binomio funziona, comunque assai meno che in Italia). Attorno a noi qualche faccia tedesca molto cordiale e allegra (saranno state le prime allucinazioni da caffeina?). Tutto era über! Il caffé, il pane, la marmellata, il burro, il formaggio, i formaggini, i salumi (rossi, blu, arancione, grigi... ), i wurst con maionese, l’aranciata, il succo di frutta... Ogni tanto qualcuno azzardava “andiamo?”, subito ripagato da una serie di “ancora un caffè?”, “un po’ di pane?”, “Gino, ci porti ancora del formaggio?”...
Finché Gino, eroico, ci propose di fermarci a pranzo.
Ci tolse dall’imbarazzo della decisione un gigantesco fritto misto fattoci imprudentemente passare sotto gli occhi.
“OK! - dissi - ma dobbiamo partire... ne assaggiamo soltanto un po’...”.
Detto! Fatto! Ottimo!
- Ma perché non assaggiate anche gli spaghetti allo scoglio? Sono appena scolati.
- Se insisti! Magari con una birretta?
Fummo attrezzati dei polifemici bicchieri bavaresi stracolmi di nettare biondo. Si sa, il pesce mette sete, dunque cominciammo a prendere un buon ritmo.
- Una macedonia?, chiese uno dei più simpatici aiutanti di Gino.
- Perché no? (Come il mitico Oscar anche noi sapevamo resistere a tutto tranne che alle tentazioni).
- Magari con gelato? Buttò lì qualcuno dei miei compari-di-merenda...
- Ve lo porto a parte, fu la risposta gentilissima.
Finalmente arrivammo al caffé del commiato. Sul menu avevo visto l’irish-coffee e l’ordinai, non prevedendone la funzione di “richiamino” (etilico) dalla nottata appena trascorsa. Ne uscii incantato. I miei compagni più attenti mi notarono e mi seguirono. Facemmo anche un paio di bis. Ci alzammo finalmente per salutare. Seguì un groviglio di baci, abbracci e qualche lacrima di commozione, oltre che di riconoscenza, dato che Gino non aveva voluto un marco!
- In cambio voglio che mi cantiate quella solo con le voci... come si chiama?...
- Barbagal?
- Sì Barbagal!
Detto! Fatto!
Glielo dovevamo! Poi saremmo partiti. Saremmo... se non ci fosse stato l’imprevedibile applauso con relativo seguito di birre provenienti da una insospettabile tavolata tedesca.
- PROSIT!
- PROSIT!
Quegli inaspettati “maledetti” ci invitarono a cantarne un altra...
- Fate Bella Ciao!
- Bella Ciao?
Cazzo! Con i tedeschi non ci era ancora successo. Potevamo rifiutare?
Ci offrirono altre birre al ritmo di zugabe - zugabe (ancora, ancora)!
Mollammo allora gli ormeggi per sparare, in una sequenza sempre più rovente, quello che di più anti-tedesco c’era nel canto partigiano... (da Pietà l’é morta a Se non ci ammazza i crucchi ) e loro battevano le mani... ordinavano altra birra (ancora oggi mi viene da chiedermi se quel giorno ci trovammo davanti ad una rappresentanza dei “comunisti-catacombali” di cui sopra o di un qualche istituto psichiatrico in gita domenicale)! Fatto sta che si erano fatte le quattro del pomeriggio ed eravamo strapieni di cibo e di birra.

Time out
“Perché non facciamo una passeggiata al laghetto?”, disse Guido, senza immaginare che la sua proposta in quel posto lì, pieno di cemento e di aridità periferico-metropolitane, suonava un po’ come l’invito a visitare le barriere coralline del Liechtenstein. Ma lui insistette e gli credemmo, perché ci raccontò di esserci stato la notte precedente con una “fan”... e lui era un tombeur de “fans” ed era soprattutto l’unico astemio della compagnia, perché non credergli? Ci avviammo al laghetto. Che ci apparve dopo una breve passeggiata in tutta la sua melmosità. Si trattava infatti di una di quelle pozze autostradali che da noi venivano utilizzate come peschiere di carpe, tinche e altri pesci per “bocche buone”, e che invece lì usavano come piscina. I cantoviviani più impavidi comunque vi “trichechizzarono” tra nugoli di mosche, bombi, tafàni e qualche vespina... Qualcuno giocò un po’ a palla. Tutti digerimmo tutto molto bene.

Ai supplementari
Erano ormai le 17,30.
“Torniamo da Gino e partiamo. Stavolta non ci sono cazzi”, sentenziò qualcuno (per la verità nell’indifferenza generale)... Tornammo alla Padella e la ritrovammo come l’avevamo lasciata: con lo stesso pubblico simpatico e bizzarro, che ci accolse ovviamente con una ovazione.
A quell’ora (erano le 18 circa) in Germania molti fanno già cena. Ci passarono sotto il naso alcune pizze bellissime (Gino era anche un ottimo pizzaiolo). “Ne assaggiamo una?” chiesi ai miei soci?, “ma no, prendiamo un caffé e andiamo”, ebbi in risposta. “Allora io riprendo un irish coffee”, dissi, conquistandomi un immediato grande seguito...
Non facemmo in tempo a finirlo che il nostro tavolo fu di nuovo assalito da un esercito di bicchieroni giganteschi di birra. Erano quei matti della tavolata di prima.
PROSIT!!!
Fummo obbligati a fare un “ultimo pezzo”.
- Se deve essere l’ultimo, facciamolo che meriti. Andiamo a prendere gli strumenti.
Detto! Fatto!
Suonammo gighe e tarantelle, curente e cha-cha-cha...
Il profumo della pizza diventò irresistibile: ne chiedemmo un assaggio. Mangiammo e tornammo a suonare. Il pensiero dell’alba-tragica successiva si era ormai dileguato. Ci tornarono in mente quei deliziosi gamberetti del pranzo... Gino ci leggeva nel pensiero. Ne portò un quintale, accompagnati da ciuffetti di calamari-del-paradiso....
“Un po’ di formaggio?” chiese uno del suo staff diventato ormai assolutamente complice. “Perché non una bella macedonia... o magari tutti e due?”, propose Umberto (lui era di quelli che avevano trichechizzato nel fango: aveva giustamente appetito!).
Tra un piatto e l’altro correva l’obbligo di suonata per i nostri “rifornitori” limitrofi di birra. Avevo ordinato l’ennesimo irish coffee (a me la roba dolce, come la macedonia, chiede una risposta alcolica adeguata) quando udii la parola magica: schnaps!
Ecco cosa ci mancava.
Gino provvide una, due, tre, innumerevoli volte.
Verso le otto di sera feci ironicamente notare che non stavamo ingerendo qualcosa di “solido” da almeno un’ora. “Perché non mangiamo una bella pasta ajo - ojo e peperoncino?”, disse allora Livio, stando al gioco.
Ma il confine tra il gioco e la realtà si era fatto indifendibile.
Dalle cucine arrivava l’eco delle risate dei cuochi e degli inservienti.
Non avevano mai visto, almeno in quel posto lì, niente di simile.
Si divertivano un mondo. E ci assecondavano al volo. Pochi minuti e, voilà: sui nostri tavoli atterrò uno stormo di piatti con pasta all’aglio-olio-e-peperoncino! Che ci mise una sete della madonna.
I tedeschi mecenati se ne erano andati (elemento che depone in favore del “sospetto d’istituto psichiatrico”...) sicché ci toccò di ordinare direttamente. E facemmo ancora qualche giro di birra, amari, schnaps, macedonia, gelato (già, finalmente un bel gelato), fino al tocco d’artista di Gino: un bicchiere di vino rosso italiano! Che ci fece riprendere il canto! Stavolta però quello dolce e triste della lontananza. Un canto che spinse il nostro generoso connazionale, ormai anche commosso, a offrirci la sua massima specialità: una serie indimenticabile di dolci bavaresi che ci aveva fin lì tenuto nascosti perché destinati al pranzo del giorno dopo.
Il ritorno
Il mondo reale con le sue piccolezze era scomparso. Avevamo risvegliato Brigadoon, e dall’altra parte della strada vedevamo Shangri-La... di Torino, del lavoro, del viaggio di ritorno, non ce ne fregava più un cazzo... avevamo cancellato tutto!
Fu Donata a ricordarcelo. Dopo ore di pacate richieste, inascoltate perfino dall’unico astemio della compagnia (lo stesso del laghetto) e dopo aver altrettanto inutilmente minacciato di prendere il furgone (con nostre immancabili risate!) per andarsene... lo fece. Corremmo a fermarla. Non fu difficile, perché non era per fortuna molto pratica del mezzo... Ma tanto bastò a convincerci che era l’Ora di Partire.
Gino, indimenticabile!, ci salvò dalla sorte dei Blues Brothers. Non volle un soldo!!!
Partimmo allegri e cantando. “Guido un po’ io” dissi da buon vagotonico.
E partimmo tra canti, risate, ruttini, cazzate del nostro miglior repertorio.
Era quasi mezzanotte.
A mezzanotte in punto mi ritrovai in un silenzio tombale, rotto quà e là da qualche polifemico sospiro digestivo. Ancora una volta, approfittando della mia “disfunzione” (così veniva chiamata la naturale predominanza del “vago” sul “simpatico” nel sistema nervoso, fino alla storica sentenza del Tar che sancì il diritto all’orario notturno per un mio compagno di sventura), mi avevano fregato. In fondo vi ero abituato... non ci pensai più e guidai dritto fino a Torino.
Alle 6,30 entrai in casa.
Mi lavai, mi feci la barba, mi cambiai e uscii.
Raggiunsi il lavoro in anticipo.
Il primo che incontrai mi guardò con aria preoccupata: “a l’à quai prublema Cesa?” (ha qualche problema Cesa?). Era uno di quelli che ci tenevano a parlarmi nella lingua in cui mi avevano sentito cantare in televisione).
“No, no... a va tüt bin!”(va tutto bene), lo tranquillizzai.
Dopo mezz’ora russavo, accasciato sulla mia sedia, tra l’ilarità generale dei presenti.
Giurai a me stesso che quella sarebbe stata la... prima e l’ultima volta...
E intanto, tra un caffé e l’altro, il pensiero correva “pesante” verso quella mia antica collega “simpatico-tonica”, che probabilmente, in quello stesso istante, stava sfoderando, leggiadra e “meripoppiniana”, tutto lo splendore smagliante delle sue belle, maledette, otto ore di sonno!
La invidiai con ogni cellula del corpo e della mente.
Fino alla sera!

Alberto Cesa (racconto scritto nel 1998)

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Sabato 23 Novembre 2024