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FOGLIO DI
DEDICA a Giancarlo Cesaroni e al
suo Folkstudio di Roma
“La leggendaria catacomba del folk” (Rai 3!)
Di Cesaroni, padre spirituale di tutti noi folksinger e di gran parte
dei cantautori più noti della scena italiana, tutti hanno scritto,
detto, raccontato... Anche se non molto per la verità, data
la sua riservatezza, sempre ben difesa. Non voglio quindi aggiungere
niente di “storico” sul suo conto. Non ne sarei neppure
in grado, dato che l’ho conosciuto direttamente appena un anno
prima della sua scomparsa.
Fu lui a chiamarmi per propormi la pubblicazione di un CD di Cantovivo
con Avvenimenti, sotto il prestigioso marchio del suo Folkstudio.
Ne fui sorpreso (dopo tanti anni non ci contavo più), emozionato,
ma soprattutto felice, perché avrei avuto finalmente l’occasione
di apprezzare di persona le grandi qualità che tutti gli riconoscevano...
anche se lì per lì non potevo immaginare a quale straordinario
incontro il destino mi stesse accompagnando. Perché di Giancarlo
scoprii pian piano, prima telefonicamente poi in una serie di incontri
romani, accanto all’ immensa umanità, la trasparenza,
la correttezza, l’onestà intellettuale... e tante altre
qualità che parevano emigrate dal mondo, da quello del folk,
soprattutto.
Lo vissi subito come un fratello, un compagno di idee e di sentimenti:
non c’era un argomento, un riferimento a fatti o a persone che
non condividessimo.
Ne ero stupito e gratificato. Era, se a dirlo non peccassi di presunzione,
come uno specchio in cui riflettermi. Era anche l’insperata
nemesi per tante amarezze subite, per gli inganni, le sopraffazioni,
i soprusi, le falsità che la vita musicale (tra tanti “applausi”
e un’infinità di belle allegrie) mi aveva purtroppo riservato
e, moltiplicando il tutto proporzionalmente alla sua (simile) esperienza,
mi chiedevo come potesse ancora tirar fuori dalla inevitabile maschera
di tristezza che ne aveva segnato il viso, quel sorriso così
caldo e naïf che quando meno te lo aspettavi ti riaccendeva intorno
la vita.
Mi aveva anche regalato l’onore (che sapevo negato a tanti,
anche già famosi, questuanti di una sua “legittimazione”)
di suonare sulla famosa seggiola rossa, dove avevano posato il culo
Dylan, De Moraes, Ravi Shankar, il suo diletto Renbourn e altri santoni
della “sua” musica (l’altra musica, come lui stesso
amava definirla).
Ero felice di aver finalmente trovato nel mio campo un amico sincero,
una sponda preziosa alle mie delusioni, alle incertezze, ma anche
alle speranze, ai progetti...
Non so quanto pesi la sua scomparsa nel mondo del folk, nella musica
in generale. Non voglio pensarci. Forse il suo tempo era finito da
un pezzo.
Questa terra non era più la sua terra, semplice, rigogliosa
e popolare, ma un luogo estraneo e desolante, desertificato e poi
occupato da “famiglie” di opportunisti e intrallazzatori
di ogni sorta, sia geografica, sia musicale che ci faceva incazzare
(me ancor oggi), ma sulla vanagloria dei quali facevamo insieme anche
montagne di risate. Una umanità che mi ha insegnato a scansare,
indicandomi, come un vecchio saggio zen, la “strada”...
quella che in fondo già stavo percorrendo, ma che, soprattutto
in suo onore, non abbandonerò mai!
A me personalmente lascia un vuoto incolmabile.
Non avrei immaginato che quelle nostre chiacchierate concise, quelle
battute fulminanti, quelle divertite complicità, fossero così
importanti.
Addio Giancarlo, “da Cesa a Cesaroni”, come ti scrivevo
nei fax!” |